Miei inediti 3 / Ma Shakespeare era mai stato in Italia?
Pubblicato il aprile 24, 2020 da Franco Marucci






Le mie idee sull’annosa questione sono esposte qui di seguito, ma non in maniera articolata e diretta. Questo post è infatti la trascrizione di una presentazione che ho fatto nel luglio del 2017, alla Farmacia di Santa Maria Novella in Firenze, del libro di Maria Rosaria Perilli, Viaggio a Firenze di William Shakespeare (Firenze, Nardini, 2017).
Comincio notando la forma scelta per questo libro: diaristico-epistolare ex post, a chiusura di un’esperienza, quella di un personaggio storico, fittizio o reinventato in visita a luoghi reali o immaginari, o appunto “mai visti” come si intitola la collana in cui il libro appare. Formula spesso usata, almeno in letteratura inglese, ma anche in altre.
È uno schermo, uno stratagemma per raccontare con la supposta voce, e voce italiana e nell’illusione autografa, di uno Shakespeare ventiseienne che in un anno solare, dal giugno del 1590 al giugno del 1591, si immagina trascorra dodici mesi a Firenze, in una qualche pausa della sua carriera poetica e teatrale, in qualità di precettore e insegnante di inglese a due giovani allievi di sangue mediceo, Maria e Antonio, figli del nipote del Granduca di Firenze. La residenza di Shakespeare in questi dodici mesi è Palazzo Pitti.
Cosicché possiamo anche dire il libro un remake o una parodia, nel senso strettamente tecnico del termine, quello appunto di un genere che coltivava a fine Ottocento un Walter Pater, autore di un gioiello quale gli Imaginary Portraits. Soprattutto analogo è, in questa opera di Pater, un diario immaginario che riflette la carriera e gli ultimi momenti della vita del pittore Watteau, storico, laddove gli altri tre ritratti pateriani sono di figure leggendarie o inventate.
Questa immaginazione di Shakespeare in Firenze poggia per forza di cose, per essere verosimile, su uno scarso, pochissimo, forse davvero nullo materiale biografico su di lui a nostra disposizione. Per cui Maria Rosaria Perilli poteva facilmente sbizzarrirsi in questa ricostruzione. Chi è in sintesi Shakespeare in questo immaginario diario fiorentino del 1590-1591; e soprattutto: che fa? Perilli lo presenta come un poeta promettente ma ancora inespresso, solo un attore, e non ancora un drammaturgo affermato, e che dunque prepara e incuba i suoi capolavori teatrali; soprattutto un giovane edonista, uno svagato naïf, un proto-esteta sensuale che assorbe avido la bellezza – spirituale, artistica, e anche carnale – in ogni sua forma attraverso gli occhi e l’olfatto.
Si può sicuramente dubitare che, nel dominio strettamente storico, Shakespeare godesse ormai da tempo fama in Firenze e in Italia di “sommo poeta”, come i fiorentini lo appellano nel libro. Nessuno di fatto ne sapeva nulla. Poco ci vien detto tutto sommato dell’attività per cui è convocato a Firenze e anzi stipendiato, l’insegnamento linguistico. Le spaziate voci del diario raccontano invece le sue visite, accompagnate da autorevoli guide, alle bellezze artistiche in Firenze e anche fuori Firenze. Naturalmente c’è un guizzo finale romantico o piccante: Shakespeare si innamora della figlia di un oste, che si chiama Viola, e ne nasce un amore erotico intenso e dolcissimo, perfettamente naturale, che deve poi chiudersi malinconicamente con il ritorno in patria del poeta. E il diario fiorentino le viene lasciato alla vigilia della partenza. Ma di questo più avanti.
Si forma allora nel diario anzitutto un diorama che riporta le reazioni estasiate e stupefatte di un colto inglese dell’epoca: una carrellata di vedute, con riflessioni, dei principali monumenti, soprattutto di aspetti e spettacoli cittadini, di scene anche quotidiane, o anche di usanze e curiosità fiorentine di allora, alcune resistenti ancor oggi, altre non più in vigore. È un piccolo vademecum di com’era o poteva essere e risultare in flashes la Firenze di allora. Il turista colto di oggi lo può ancora utilmente tenere in mano, dopo averne gustato l’operazione stilistica e parodistica, come, un secolo e passa fa, certe opere di Ruskin dedicate a Venezia e Firenze – The Stones of Venice o Mornings in Florence – erano tenute in mano visitando l’arte delle due città, salvo naturalmente il fatto della complicazione della voce narrante. Dico turista colto perché c’è poi nel libro di Perilli un artificio che molto apertamente, e anche al livello del registro linguistico, come dire estrania il lettore: intendo l’apparato ricco di note a piè di pagina, che avvisano della finzione con informazioni e precisazioni di storia dell’arte che sistematicamente indicano le modifiche architettoniche e urbanistiche nel frattempo, in questi quattro secoli, intervenute. Dunque vi è un richiamo costante al fatto che l’aspetto della Firenze del tardo Cinquecento non era esattamente quello di oggi, con varie sorprese per i non addetti, e frutto di ricerche molto precise e approfondite sulla storia artistica di Firenze. C’è un divario nettamente percepibile, e non so quanto ironico, tra il fine calco del testo, suppostamente di uno Shakespeare che scrive in un italiano che imita il lessico cinquecentesco, e la lingua delle note, lingua di un’altra voce, di un editor postumo, molto tecnica e fattuale e di una informatività qualche volta pedantesca. Ma ripeto, potrebbe essere un attrito voluto.
Capitoli intestati e datati sono perciò dedicati alle escursioni: Palazzo Pitti e Boboli; Castello, Pratolino e Poggio a Caiano; San Miniato; piazza della Signoria e Palazzo Vecchio con la guida del Buontalenti; il convento delle Murate; la Cattedrale e il campanile; San Lorenzo, il tutto contestualizzato nel mutare delle stagioni. Poi Santa Maria Novella e la Farmacia e Palazzo Medici Riccardi. Indi Shakespeare percorre il corridoio vasariano, viene alla casa di Dante, entra in Santa Croce e in Palazzo Davanzati, visita Palazzo Strozzi, la Fortezza, la SS. Annunziata, Orsanmichele, piazza San Marco. Shakespeare viene ammesso come Accademico della Crusca, e si traccia la storia della istituzione. È spettatore di tradizioni e feste: assiste alla Rificolona, vede e descrive il tradizionale tuffo nelle acque gelide dell’Arno il 1 gennaio e lo scoppio del carro. Tutto con lo stupore di chi vede questo per la prima volta.
Cosa spetta a me in questa veste di studioso di Shakespeare, e cioè facendo il mio mestiere, è vedere in che misura o secondo quali parametri Shakespeare è qui reinventato. Parlavo sopra di “ritratto” e infatti il testo ce ne propone uno in copertina. Anch’io l’ho usato in un mio libro; ma si dubita da parte degli studiosi che sia un ritratto autentico di Shakespeare. È noto come “The Cobbe Portrait”, è di proprietà di una famiglia dublinese e si trova a Dublino. Di certo il soggetto del ritratto non assomiglia in niente allo Shakespeare spesso messo in copertina in edizioni dei suoi drammi e soprattutto al busto del drammaturgo che si trova nella chiesa della Santa Trinità di Stratford. Anche l’abbigliamento di questo ritratto in copertina è forse non compatibile con le mode vestimentarie in vigore in Inghilterra in quel periodo. È o sarebbe uno Shakespeare giovane, d’accordo: nei ritratti dell’uomo maturo Shakespeare è più spelacchiato e come si dice stempiato.
Naturalmente lo scrittore immaginario non è tenuto all’assoluto rispetto della verità storica. Però non solo Shakespeare difficilmente poteva essere in Italia in quell’anno, ma ci viene descritto come attore e poeta, quale era effettivamente, anche se solo nelle cerchie dei poeti professionisti, e non ancora come drammaturgo affermato, il che nel 1590 già era o stava per diventare. Ripeto che poco o nulla sappiamo della sua vita intima e spirituale, e poco della sua quotidianità, ma Perilli enfatizza soprattutto la sua sete di spettacoli di bellezza, il suo amore per l’arte e una curiosità non documentata dai lavori drammatici, e la sua sensualità e la sua fama di amatore sulla scia di aneddoti leggendari e anche di un recente film. Queste leggende poggiano sul fatto plausibile che Shakespeare avesse una specie di doppia vita: tormentato indagatore oggettivante delle passioni umane primarie e dei fondi della psiche nei drammi, quanto appunto spregiudicato e anche sfrenato amatore.
Questo Shakespeare reinventato da Perilli è reticente sulle sue elucubrazioni filosofiche e sui progetti drammatici che covavano, e non si fa menzione dei drammi che aveva già scritto e rappresentato, salvo forse fuggevolmente. Non è niente affatto un amletico pensatore. Mira solo, per un anno, a divertirsi e a godersi la vita; in realtà la vita teatrale della Londra dell’epoca era frenetica e non concedeva e permetteva requie. Gli studiosi sono comunque orientati ad escludere che Shakespeare venisse mai in Italia, ma se lo fece ciò fu forse nel 1593-1594 quando i teatri furono temporaneamente chiusi per la peste. Dunque c’è un certo sfasamento tra lo Shakespeare reale del 1590, che aveva già vari drammi al suo attivo, e questo Shakespeare diciamo ancora principiante.
Per il resto la ricostruzione di Perilli è fedele: vero che Shakespeare avesse una moglie più anziana, sposata come dicono gli inglesi con uno shotgun wedding e con cui i rapporti si deteriorarono molto presto; che avesse tre figli, che conoscesse bene l’emigrato italiano John Florio che gli insegnò alcune parole di italiano o gli impartì forse anche una buona conoscenza della nostra lingua. I pareri sono tuttavia discordi su questo dato: Shakespeare sapeva ottimamente il francese, come testimonia una intera scena in francese dell’Enrico V, ma le occasionali interiezioni italiane o le parole presenti nei drammi sono storpiate o improprie; sennonché potrebbero essere semplici refusi perché Shakespeare non supervedeva la stampa delle sue opere. Qui in Perilli si immagina invece che Shakespeare avesse una perfetta, anzi superlativa conoscenza dei moduli letterari del tardo Cinquecento italiano, che lui imita senza sbagliare una virgola. Cosa da sempre difficile per un inglese, potremmo ironizzare! Dice il testo: “questa lingua elegante e da anni studiata con l’aiuto dell’amico Florio”. Anzi secondo la finzione Shakespeare stende all’impronta, in italiano, un intermezzo boccaccesco, presenta alla Crusca una cicalata sulla bontà della cucina fiorentina, compone un sonetto italiano, e nella cicalata, elemento decisamente simpatico, Shakespeare sceglie il nome di Separato e lo giustifica; e anche si è anche fatto disegnare e approntare la sua pala da fornaio.
La love story decolla alla osteria oggi del Pennello: qui Shakespeare si infatua di Viola che canta. Nasce un amore in regime di totale candore e disinibizione. A Carnevale, Viola si traveste, e travestita gira in incognito con Shakespeare per le strade di Firenze. Shakespeare la chiama Duccio, ma essendo in germinazione – secondo Perilli, che intuisce e collega – La dodicesima notte, avrei trovato più arguto chiamarla Cesario, ché con questo nome Viola si presenta a Orsino in quel dramma.